"Vi spiego perché non vado al 40esimo congresso del partito radicale", Marco Perduca
Pare proprio che la morte di Marco Pannella per i radicali sia stato come un "bomba libero tutti". Fin dall'inizio della fase finale delle sue malattie, la dirigenza non si è riunita intorno al partito, alle sue lotte e a quello che il Pr ha rappresentato in Italia e nel mondo. Hai voglia a ripetere "spes contra spem", ognuno è andato per la propria strada ritenendo di continuare a fare quello che aveva fatto in passato (anche niente).
Sebbene non siano mai mancati momenti di aspro confronto interno, anche pubblico, su tutto lo scibile politico e umano, dal congresso del 2011 nessuno ha ritenuto che fosse prioritario riflettere sul perché, in tutti questi anni e di fronte a importanti obiettivi raggiunti, il partito radicale in quanto tale non sia riuscito a diventare un soggetto politico realmente transnazionale con un numero significativo di iscritti e dirigenti non italiani e una presenza attiva di parlamentari di ogni appartenenza partitica e provenienza geografica.
Non parteciperò al 40esimo congresso del partito radicale perché, a differenza di quanto sarebbe stato opportuno fare all'indomani della scomparsa di chi quel tipo di partito aveva inventato, e cioè prendersi tutto il tempo necessario per riflettere profondamente sui successi politici e gli insuccessi "partitici" del Pr, si è voluto corrispondere immediatamente a una richiesta di convocazione straordinaria promossa dal tesoriere e accolta da un terzo degli iscritti al partito.
Era sicuramente necessario convocare un congresso, ma la sua organizzazione, pur urgente, non aveva motivo d'esser immediata.
Convocare un congresso per "convocare un congresso", oltre a non sembrarmi in linea con la teoria della prassi "pannelliana" - ma questo sicuramente è un problema mio -, implica il non interessarsi della sua preparazione nel dettaglio e quindi di non interessarsi a pianificare il futuro del partito. Non ritengo, né l'ho mai pensato in passato, che partecipare a riunioni voglia dire far politica - anche perché, molto spesso, i più formidabili animatori di congressi il giorno dopo scompaiono nel nulla - le riunioni di tre giorni - anche quelle fondamentali di un congresso - passano, le idee frutto di anni di approfondimenti restano, ma senza le gambe e l'organizzazione su cui farle camminare la politica non c'è.
Nelle relazioni interpersonali, specie quelle pubbliche, e quindi politiche, i simboli giocano un ruolo centrale che però di per sé non può esser sufficiente. Il loro richiamo - il 40esimo congresso è stato convocato con lo slogan "Da Ventotene a Rebibbia" - ha potenti significati evocativi, allusivi e propositivi, ma senza la "ciccia" queste restano mere enunciazioni.
Nei suoi 70 anni di militanza politica, Marco Pannella ha fatto propri, usato, rilanciato e interpretato simboli di ogni genere e provenienza. Ma ai richiami, alle allusioni e alle evocazioni, Pannella faceva sempre seguire un progetto politico che tenesse insieme metodo e merito, una proposta che fosse capace di coinvolgere, magari solo per un brevissimo tratto di strada, anche il peggior delinquente o avversario politico perché, laicamente, anteponeva obiettivi di riforma generale a interessi particolari. Anche quelli di partito.
Oltre a questo, Pannella sapeva "subire" (come diceva lui) decisioni altrui e convivere con profondi disaccordi all'interno del partito - tra l'altro, l'avvio della campagna che oggi è proposta come centrale per il Partito Radicale, quella per il "diritto alla conoscenza", fu bocciata più volte una decina di anni fa, quando si chiamava "Iraq Libero", da buona parte dei membri non italiani del Consiglio generale del Pr... Pannella incassava l'insuccesso formale ma non abbandonava di vista gli obiettivi che riteneva dovessero esser perseguiti. Quando vinceva, quindi nella stragrande maggioranza dei casi, non smetteva comunque di seguire con interesse e presenza, anche fisica, le vicissitudini politiche di coloro che non avevano accettato le sue proposte, specie se non italiani. Quando poteva, faceva tutto quanto gli era possibile per sostenere le loro lotte - che tra l'altro non necessariamente sposava in toto.
Dalla sua transnazionalizzazione, avvenuta al XXXV congresso di Budapest nel 1989, il partito radicale ha tenuto quattro congressi e, con forse un paio d'anni d'eccezioni, non è mai riuscito a far vivere pienamente il proprio statuto. Eppure non c'è stata riunione, anche recente, in cui non si siano sentiti riferimenti aulici allo statuto, a un documento che non conosce probiviri, che consente l'iscrizione a chiunque e che prevede, tra le altre cose, un presidente d'onore, un segretario, un tesoriere, un consiglio generale composto da 50 membri - metà eletti dal congresso e metà da eleggersi tra i "legislatori" iscritti - e che nel 2002 ha creato un organo chiamato senato che raccoglie le "associazioni costituenti" il partito.
Secondo lo Statuto il congresso andrebbe convocato a cadenza fissa ogni due anni.
Se i convocatori del 40esimo Congresso, che nella stragrande maggioranza dei casi son iscritti al partito radicale da decenni, e gli organizzatori del consesso, che nel partito militano da una vita, ritengono centrale per l'azione politica del partito non il perché oggi un "partito" non ci siano bensì certificare con un voto congressuale presunti desideri di scissione agitati sulla "stampa di regime" dalla primavera scorsa, oppure promuovere una catalogo di evocazioni che alludono a progetti visionari del passato, si accomodino. Pur concordando con loro che certi comportamenti in effetti non tendono all'idem sentire, non sento mia l'urgenza di arrivare a una rottura perché sarà drammatica per il futuro del partito. Non intendo collaborare alla conclusione non politica di una storia come quella del Pr.
Inoltre, il combinato disposto della data e del luogo della convocazione del 40esimo congresso rende letteralmente impraticabile la partecipazione di molti, sicuramente dei non italiani. Una precisa scelta politica alla quale non mi unisco né, però intendo oppormi. La ritengo talmente estranea, e lontana, a quello che occorrerebbe al partito radicale domani, e così in radicale discontinuità con quanto ho visto fare, e in parte ho fatto, negli ultimi 25 anni, che non suscita la mia attenzione o interesse.
Prediligere lo scontro di superficie, piuttosto che creare le condizioni per arrivare a un confronto, anche di rottura, ma nel merito dei problemi è quanto di meno opportuno si potesse scegliere di fare in questo nefasto 2016. A un partito con queste dinamiche non credo che mi sarei mai iscritto.
Per anno ho concorso all'impostazione per cui, all'organizzazione del soggetto politico transnazionale, e transpartitico, è sempre privilegiata la lotta politica - e parlamentare - nazionale, internazionale, nonviolenta, istituzionale. Una scelta che per tre decenni, grazie a campagne specifiche che negli anni si sono poi organizzate e strutturate in associazioni, ha aperto e chiuso uffici, iscritti parlamentari, membri di governo, intellettuali, giornalisti e militanti dei diritti umani. Ha concorso a scrivere leggi, mozioni, risoluzioni, referendum, emendamenti, appelli, petizioni e organizzato migliaia di riunioni, centinaia di convegni in quattro continenti.
Ma pochi congressi: nel 1992-3, nel 1995, nel 2002 di nuovo in due sessioni e nel 2011 in altrettante due parti.
Malgrado questa rarefatta dinamica congressuale e le insistenti evocazioni dello statuto, il dibattito sulla forma partito ha sempre occupato, specie recentemente, una frazione infinitesimale delle migliaia di ore di riunioni...
Dopo aver partecipato a un paio di raccolte firme nei primi anni Novanta, mi sono iscritto al partito radicale per la prima volta nel 1994. Mi sono iscritto con la convinzione, comunicata in una lettera all'allora segretaria Emma Bonino, che le battaglie transnazionali contro la pena di morte, per la creazione dei tribunali ad hoc per la ex-Yugoslavia e il Ruanda, l'istituzione di una Corte Penale Internazionale e l'antiproibizionismo - oltre che una lingua internazionale - fossero obiettivi politici non solo condivisibili ma perseguibili da un soggetto politico nuovo che riusciva a guardare al futuro.
Da allora, con la sola eccezione della Bonino, credo di esser il militante, dirigente e parlamentare radicale che ha avuto l'onore e l'onere di girare il mondo per tentare di raggiungere gli obiettivi fissati nelle mozioni dei primi anni Novanta partecipando a decine di missioni e conferenze in mezzo mondo per le associazioni radicali Non c'è Pace senza Giustizia e Nessuno Tocchi Caino, le attività della Lega internazionale Antiproibizionista o quelle della Esperanto Radikala Asocio e, più tardi, dell'Associazione Luca Coscioni. Allo stesso tempo, e per diverso anni, ho anche coordinato alle Nazioni unite di New York, Ginevra e Vienna le attività del partito radicale - il Pr è affiliato ufficialmente all'Onu dal 1995 e in due occasioni si è dovuto difendere dalla Russia e dal Vietnam per aver concesso il proprio diritto di tribuna a dissidenti politici alla Commissione Diritti Umani.
Per me il partito radicale, e le sue associazioni costituenti, con le loro iniziative, pregi e difetti, non sono un'evocazione, son state una mia occupazione quotidiana per un ventennio. Ho visto cosa e come può esser fatto e cosa e come non è mai astato fatto - anche perché non poteva esser fatto.
Per anni ho partecipato convintamente anche all'esercizio retorico del recupero della speranza che l'unione laica di forze all'interno di un partito transnazionele e traspartito - forze che spesso laiche non erano - potesse suscitare qualcosa di nuovo, di riformatore, di liberale. Sicuramente sono più i casi in cui quegli auspici non si son verificati per come proposti, ma son convinto che senza quei tentativi, anche quelli non andati a buon fine, l'Italia, e altre zone del mondo dove ci si apriva alla democrazia e il partito radicale è riuscito operare, vivrebbero in condizioni peggiori.
Capivo che le piegature delle regole e della lingua italiana, e anche di qualche fase della storia patria, operate da Pannella avevano sempre, al contempo, obiettivi ulteriori, a volte più grandi altre meno importanti, ma si trattava di obiettivi che erano frutto di una visione d'insieme che veniva da lontano e che alla fin fine non faceva mai "perder tempo" anzi, lo facevano guadagnare, nella speranza che, assieme alle lotte crescesse anche il partito, il partito radicale transnazionale e transpartito.
Se Pannella riteneva cruciale guadagnare tempo, perché oggi bisogna in fretta e furia convocare il primo congresso senza di lui?
"Ecco, ma tutte queste belle cose, non le potevi andar a dire al congresso?" mi ha chiesto un amico l'altro giorno. In una delle ultime riunioni che si tenevano quotidianamente alle 12 in via di Torre Argentina a cui Pannella ha partecipato appieno, mi capitò di dirgli che iniziavo a trovar difficile poter continuare a far "cose" che mi provocassero "sforzi" mentre lavoravo altrove. Un conto era l'impegno frutto di convinzioni, un altro lo sforzo frutto delle circostanze poco armoniose. "Quando il secondo prende il sopravvento sul primo" gli dissi "i risultati non arrivano, e l'atmosfera e la salute ne risentono". Ci attardammo brevemente sull'origine di questa impostazione, io la imputavo allo yoga, lui non concordava, ma alla fine son rimasto dell'opinione che gli sforzi, almeno i miei, non riuscissero più a esser utili a certe cause - neanche a quella di insistere su quell'argomento con Pannella. Ahimè.
Credo che il partito radicale non abbia bisogno di gente che faccia sforzi, bensì di gente che s'impegni su qualcosa di chiaro e di perseguibile, che s'adoperi per reperire risorse umane e finanziarie, che privilegi la politica al "resto" - spesso anche all'organizzazione della propria esistenza.
Ma, nel 2016, insistere con la necessità di far vivere un soggetto politico transnazionale e transpartitico senza interrogarsi sul perché non sia stato possibile che questo vivesse per come era stato immaginato dal suo ideatore in fasi storiche in cui Marco Pannella ed Emma Bonino erano al massimo della forma e c'erano parlamentari "radicali" eletti in Italia e a Bruxelles, è una nuova prassi che temo faccia economia della teoria.
Certo è stata evocata, verbo ormai ineludibile, la necessita di arrivare a uno "stato del partito", ma anche qui, e chi ha convocato e organizzato il congresso lo sa molto meglio di me, occorrono mesi di intenso lavoro per presentare una bilancio consuntivo e altrettanti per uno preventivo.
Ah, a proposito di bilanci, quasi dimenticavo: in alcune delle riunioni degli ultimi tempi ho anche sentito parlare di "resa dei conti". Se si tratta di "dare e avere", mi sento a posto, il mio bilancio è stabilmente in pareggio (magari un giorno che ho tempo lo calcolo), se invece si tratta di rese dei conti da regimi coi baffi allora dico "col trattore in tangenziale, andate a comandare!"
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Pubblicato: 01/09/2016 11:13 CEST Aggiornato: 01/09/2016 11:17 CEST
http://www.huffingtonpost.it/marco-perduca/partito-radicale-congresso-_b_11801032.html