"Le vicende ucraine viste da Pechino", Francesco Leone Grotti
Nella fase più acuta della crisi ucraina, la Cina è rimasta sullo sfondo, quasi in disparte; eppure, il suo ruolo è potenzialmente dirimente, essendo un paese dotato di potere di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il presidente Xi Jinping, chiedendo la “risoluzione della crisi attraverso il dialogo”, ha definito la situazione “molto complicata e sensibile”, così come sensibile e complicata è la posizione che Pechino deve mantenere.
Dopo una telefonata tra i ministri degli Esteri di Cina e Russia, il Cremlino ha dichiarato che “c’è stata un’ampia convergenza di vedute riguardo alla situazione in Ucraina”. In modo un po’ inusuale, tuttavia, il portavoce del ministro cinese, Qin Gang, ha rilasciato in seguito un comunicato precisando: “La posizione della Cina è da tempo quella di non interferire negli affari interni di altri paesi. Noi rispettiamo l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina”.
Quello della “non interferenza” è un mantra della politica estera del Partito comunista, che viene utilizzato ogni qualvolta un paese faccia commenti e obiezioni sulla situazione dei diritti umani in Cina. Questo principio, però, non è l’unico motivo per cui Pechino “rispetta l’indipendenza dell’Ucraina”: nel 2013 i rapporti commerciali tra i due paesi hanno raggiunto un volume pari a 10 miliardi di dollari, come riportato dall’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, rendendo Pechino il secondo partner commerciale di Kiev. L’anno scorso, in seguito a un incontro tra Xi Jinping e il deposto presidente ucraino Yanukovich, la Cina si è impegnata a investire nel paese circa otto miliardi di dollari in vari settori-chiave: infrastrutture, aviazione, energia, agricoltura e finanza. Pechino ha contatti con Kiev anche dal punto di vista militare: la prima e sola portaerei attualmente in dotazione dell’esercito cinese è stata comprata proprio dall’Ucraina.
La difesa di questi interessi economici, unita al principio di “non interferenza”, avrebbe in effetti giustificato una ferma posizione della Cina a favore dell’Ucraina, ma le considerazioni da tenere in conto sono molteplici e in parte contraddittorie: da una parte, Pechino non ha nessuna intenzione di giustificare una rivolta, di qualunque natura sia, vista l’importanza cruciale che dà alla “stabilità interna”; dall’altra, c’è appunto la tradizionale preoccupazione per il principio dell’integrità territoriale contro i movimenti secessionisti (nel caso ucraino, sobillati dalla Russia soprattutto in Crimea); infine Pechino intende comunque preservare i rapporti con Mosca. La Cina ha infatti trovato in Putin un valido alleato con il quale si è opposto in sede di Consiglio di Sicurezza all’intervento internazionale in Siria e prima ancora (senza successo) in Libia, anche se poi sia Pechino che Mosca hanno deciso per l’astensione. A ciò deve aggiungersi che la Russia aiuta da oltre due decenni l’esercito cinese ad ammodernarsi e ad equipaggiarsi, oltre a contribuire in modo cruciale a soddisfare la sua crescente fame di energia.
Nonostante queste considerazioni, la Cina non ha appoggiato esplicitamente il dispiegamento informale di migliaia di soldati russi in Crimea, territorio donato a Kiev da Kruscev (di origine ucraina egli stesso) al tempo dell’Unione Sovietica, nel 1954, e abitato in prevalenza da cittadini di etnia russa. La ribellione al nuovo governo ucraino da parte del parlamento della Crimea, che ha annunciato per il prossimo 16 marzo un referendum sull’annessione della Repubblica autonoma alla Russia, rappresenta evidentemente un problema serio per la Cina. Il partito comunista, infatti, non si può permettere di avallare neanche teoricamente la secessione di un territorio su base etnica: come potrebbe altrimenti opporsi a quanti chiedono l’indipendenza del Tibet? Come potrebbe opporsi ai tanti uiguri, che chiamano “Turkestan orientale” lo Xinjinag, provincia sempre più attraversata da tensioni separatiste?
Per questi motivi la Cina non può né sostenere la rivolta di piazza Maidan, né appoggiare le rivendicazioni della Crimea, né sostenere apertamente la Russia, così come non può criticarla. Se ufficialmente il governo cinese è costretto a mantenersi in precario equilibrio, ufficiosamente può esprimere una linea politica più netta. Così, secondo un articolo pubblicato dal giornale di partito Quotidiano del Popolo a firma Zhong Sheng, cioè anonimamente “la voce della Cina”, la responsabilità di questa complessa situazione ricade sull’Occidente, colpevole di attuare una politica russofobica e di aver provocato la rivolta ucraina a forza di sostenere i giovani di piazza Maidan pubblicamente. Secondo l’articolo, Stati Uniti e Unione Europea dovrebbero abbandonare “la mentalità da guerra fredda”.
La stessa mentalità che, però, la Cina stessa non vuole abbandonare. Per quanto non rappresenti più una novità, Pechino ha deciso per l’ennesimo anno di aumentare in percentuale a doppia cifra il suo budget militare. Alla XII sessione dell’Assemblea nazionale del Popolo, la prima dell’era Xi Jinping e Li Keqiang, i circa 3.000 deputati del “parlamento” nazionale hanno approvato la destinazione nel 2014 di 808,23 miliardi di yuan (circa 96 miliardi di euro) per le spese militari. La cifra rappresenta un aumento del 12,2% rispetto al budget del 2013, in linea con gli aumenti precedenti: nel 2013 era stato del 10,7%, nel 2012 del 11,2%, nel 2011 del 12,7%. Inoltre, secondo molti osservatori, la spesa reale sarebbe almeno il doppio di quella dichiarata ufficialmente.
Insomma, mentre mantiene un basso profilo sulla spinosissima questione russo-ucraina, la Cina non rinuncia certo a dotarsi di strumenti militari più potenti e prepararsi per ogni evenienza – guardando con preoccupazione sia alla regione Asia-Pacifico sia all’Asia centrale.