"Marco Pannella, scandaloso galantuomo", Andrea Pugiotto
Cinque anni senza il leader radicale
Raccontare Giacinto Pannella detto Marco, classe 1930, scomparso cinque anni fa, esattamente il 19 maggio 2016. Vasto programma: la sua vita personale, infatti, si è intrecciata con quella collettiva così tante volte da rendere impossibile stringerle tutte insieme. Inevitabile, dunque, sarà risalire solo alcuni dei tanti affluenti che hanno alimentato il fiume in piena della sua biografia politica.
Ricordarlo, sia chiaro, non per farne un coccodrillo commemorativo né per censire tutte le battaglie radicali vinte o ancora da vincere. Qui interessa altro: cogliere alcuni dei tratti più innovativi e fecondi della sua prassi politica. Tentare, soprattutto, di individuare le costanti (culturali e di metodo) all’interno di quel carosello di battaglie di scopo di cui Pannella è stato protagonista. Riportarlo così tra noi, perché ancora contemporaneo. Come se fosse di nuovo qui, immerso tra le nubi tossiche di fumo pestilenziale che si addensavano sullo studio di Radio Radicale, che le memorabili conversazioni domenicali tra Pannella e Bordin trasformavano in una Seveso in sedicesimo.
Parto dalla fine: Montecitorio, camera ardente allestita in onore del più volte deputato Pannella, luogo di fluviali omaggi (come lo fu la sua soffitta romana, in via della Panetteria a due passi da Fontana di Trevi, nei suoi ultimi cento giorni di vita). A spezzare l’onda di commozione generale è una battuta di Giuliano Ferrara, avvicinatosi al feretro: «Volevo accertarmi che fosse morto davvero, con Pannella non si sa mai». La prova regina che Pannella se n’era andato veramente è che in quei giorni – come è stato notato – sembrava quasi che il Partito Radicale avesse il 95% dei consensi, e non si sapeva. Una marea di riconoscimenti, messaggi, testimonianze, apprezzamenti da parte di tutto il mondo (politico e non) in memoria del leader radicale. La modifica dei palinsesti televisivi e le spaginate dei quotidiani a suo ricordo. L’elogio postumo delle sue battaglie politiche e delle sue preveggenti intuizioni. Santo subito («Santo subito un cazzo!» avrebbe reagito lui, come chiosò La Gazzetta del Mezzogiorno).
Una situazione mai sperimentata in vita. Marco Pannella ha raccolto, in morte, affetto e rimpianto vastissimi, come se fosse un leader di popolo, non il capo di una piccola nave corsara le cui battaglie, spesso e a lungo, sono state considerate non notiziabili. Come spiegare, allora, una simile sarabanda? Certamente con l’«industria dolciaria degli estinti» (Francesco Merlo) e l’«ipocrisia italiota, che glorifica i morti e odia i vivi» (Dimitri Buffa). Sì, anche, ma non spiega tutto. C’era ben altro dietro quel corale congedo, come meglio di tutti seppe cogliere un altro grande vecchio, Emanuele Macaluso: il riconoscimento unanime di «una vita politica clamorosa, che risalta di fronte alla miseria politica del presente». Un’unicità anche umana diffusamente percepita, che spiega l’affetto autenticamente popolare che ha sempre circondato Pannella ben al di là della ristretta cerchia dei suoi compagni di lotta, un affetto che proveniva anche da chi, magari, in cabina elettorale non aveva mai votato per la Rosa nel Pugno.
Tutto, di Marco Pannella, era eccessivo. A partire dal suo fisico: alto e massiccio, ma d’impressionante scheletricità durante i suoi digiuni, criniera candida raccolta in una curata coda di cavallo, cravatte carnevalesche, voce potente, bellissimi occhi azzurri penetranti, sorriso amaro e irridente, divoratore famelico di pastasciutta, tabagista oltremisura con certificato medico in tasca per poter fumare ovunque («Me lo ha detto anche il dottore: se smetto di fumare, muoio»), bisessuale dichiarato eppure legato per quarant’anni alla compagna di una vita, Mirella Parachini. Aveva il phisique du rôle del combattente, vinto solo dall’alleanza mortale tra un tumore al fegato e un altro al polmone.
Attraverso il suo corpo, Pannella ha introdotto cinquant’anni fa la biopolitica in Italia, in un’epoca in cui il soma e la sua concretezza erano estranei a una politica dominata dalle ideologie e dalle filosofie della storia.
Non è stato solo un fatto di costume. Ha segnato autentiche fratture politiche, rompendo appartenenze di partito e ricomponendo inedite alleanze su issues capaci – alla lettera – di dare corpo al diritto e alla politica: divorzio e aborto, diritti degli omosessuali e fame nel mondo, inizio e fine vita. Ha segnato anche una rivoluzione comunicativa, facendo del proprio corpo ora un tazebao, ora un megafono per torrenziali interventi parlamentari, imbavagliandolo per meglio parlare al pubblico televisivo, travestendolo in modi giullareschi dettati, in realtà, da un uso astuto e consapevole dei meccanismi dell’informazione nella società dello spettacolo. Così facendo, Pannella ha dato evangelicamente scandalo, «uno scandalo inintegrabile», come ebbe a scrivere Pier Paolo Pasolini. Eppure, l’ostensione del suo corpo è stata a lungo sbeffeggiata, tantissimo osteggiata e alla lunga ignorata, come se non meritasse attenzione. Accade ancora oggi ai radicali: come Rita Bernardini che, facendo le righe su e giù per via Arenula tra uno sciopero e l’altro della fame, cerca di tenere accesi i riflettori sui troppi corpi ammassati dietro le sbarre.
Sembra di sentirlo, il rumore di sottofondo: «Che tedio!» questa smania di de-nutrire sé stessi per nutrire il dialogo con l’interlocutore, aiutato così a fare ciò che dovrebbe fare. Il solito «chiagni e fotti» dei radicali, insomma, secondo la garbata penna di Marco Travaglio. Per il sistema dell’informazione, l’uso nonviolento del proprio corpo è come la musica andina (per Lucio Dalla): una noia mortale. Preferisce di gran lunga, per ragioni di audience, il vaffanculo urlato in piazza, la minaccia truce, la violenza consumata, meglio ancora il martirio. Disinteressato al corpo smagrito di chi lotta digiunando, è invece sempre pronto a regalare la ribalta al corpo contundente che si scaglia contro qualcuno o qualcosa. È davvero una «normale bestialità» (il copyright è di Valter Vecellio) che, per notiziare una causa, serva esibirla con forza bruta.
Marco Pannella è stato il primo in tante cose, senza mai sentirsi tale: nella sua visione politica, infatti, non esistevano avanguardie, ma solo persone un po’ in ritardo. Vedeva e pre-vedeva scenari che gli altri non riuscivano neppure a immaginare. Qualche esempio? In anticipo su tutti, ha intuito la crisi della rappresentanza politica e della democrazia parlamentare, cui ha cercato di porre rimedio prima con la Lega per l’uninominale, poi promuovendo – con Mario Segni e altri – i referendum elettorali degli anni novanta. Ha predicato e praticato la nonviolenza come forma dell’agire politico, quando – da una parte e dall’altra – si usavano le armi “dialettiche” della spranga e della chiave inglese, si praticava la lotta armata e la si fiancheggiava con irresponsabile sicumera. Isolato e inascoltato, già negli anni settanta si scagliava contro le pensioni-baby, proponeva (con Marcello Crivellini) un piano di rientro dal debito pubblico, teorizzava la necessità di protrarre la vita lavorativa per rendere sostenibile il sistema previdenziale.
Prima di tutti, ha intuito la globalizzazione delle decisioni politiche, trasformando il Partito Radicale in un aggregato transnazionale e impegnandolo in battaglie di respiro universale: la lotta per la fame nel mondo, cioè contro un ordine economico in disequilibrio e per il diritto all’ingerenza umanitaria; la moratoria all’ONU delle esecuzioni capitali, in vista dell’integrale abolizione della pena di morte; l’istituzione della Corte penale internazionale sui crimini di guerra e contro l’umanità, perché non c’è pace senza giustizia; la sua ultima battaglia, ancora in corso, per il riconoscimento del diritto umano alla conoscenza e per la transizione verso lo Stato di diritto. Eresie, allora e per i più. Il problema è che essere visionari non aiuta mai in politica, se significa arrivare troppo in anticipo sugli altri. Si rischia di passare per stravaganti, raccogliendo così percentuali elettorali da prefisso telefonico. Salvo poi, ma solo molto tempo dopo, vedere le proprie proposte diventare patrimonio comune, eredità collettive.
È accaduto anche a una delle creazioni pannelliane di maggior pregio, Radio Radicale, sopravvissuta alle tante radio libere che negli anni settanta facevano controinformazione militante. Nessuno, allora, avrebbe scommesso un’oncia sulla longevità di un’emittente che, piratescamente, trasmetteva le sedute parlamentari rendendole davvero pubbliche (come esige l’art. 64 Cost.). E poi – nel tempo – i processi, i congressi di partito, le assemblee sindacali, le più importanti sedute del Csm e della Corte costituzionale, migliaia di eventi politici e culturali diffusi: tutto, da ovunque, per tutti, direttamente. Dilatando i tempi e rallentando i ritmi chapliniani dell’odierna informazione, Radio Radicale ha sempre privilegiato la riflessione alla sparata provocatoria: perché l’informazione serve al cittadino per sapere, capire, farsi un’idea, non per alzare o rovesciare il pollice, come plebe nel circo mediatico e nell’arena dei social media.
Pannella era dottore in Giurisprudenza, ma solo per sbaglio: si laureò nel 1955, a Urbino, con una tesi sui Patti lateranensi scritta non da lui, discussa animatamente per due ore, riportando il punteggio più basso conseguibile: 86/110. Eppure, giuridicamente, era un sapiente. Credeva nel diritto come violenza domata, nella legalità quale regola e limite al potere, nella democrazia come conflitto senza spargimento di sangue. Sono i fondamentali del costituzionalismo liberale, sui quali ha saputo edificare un metodo di lotta politica capace di usare il diritto (lex) in funzione dei diritti (jura). Due soli esempi, giusto per capirci.
In un Paese dove la rappresentanza politica non è elettoralmente accessibile a tutti, Pannella ha avuto il grande merito di scoprire la seconda scheda, quella referendaria. L’ha messa in mano a ciascun elettore, chiamato a decidere se abrogare una legge o – con i quesiti manipolativi – addirittura riscriverla. Attraverso questo inedito canale di decisione politica, i referendum radicali hanno permesso al Paese di esprimersi su temi altrimenti sequestrati, come il divorzio e l’aborto, la depenalizzazione delle droghe leggere e la fecondazione assistita. Hanno posto al centro del dibattito pubblico il tema del finanziamento ai partiti, la politica energetica, la responsabilità civile dei magistrati, le libertà economiche e sindacali. Negli anni di piombo e della fermezza («La fermezza è stare fermi», denunciava, non a torto, Pannella), hanno messo in discussione le leggi emergenziali, l’infinita durata della custodia cautelare, il porto d’armi, l’ergastolo.
L’altro strumento giuridico concepito da Pannella è l’uso della questione di costituzionalità come canale alternativo di riforma legislativa. Disobbedendo pubblicamente a una legge ingiusta, il militante radicale vuole andare a processo per chiedere al proprio giudice di impugnarla davanti alla Corte costituzionale. E poiché la Consulta risponde non al consenso popolare, ma alla legalità costituzionale, quella legge – se illegittima – sarà cancellata. È così che l’Associazione Luca Coscioni ha smantellato le ideologiche norme proibizioniste sulla procreazione assistita. È la strada che Marco Cappato ha percorso per smascherare l’incostituzionalità del reato, previsto nel codice penale fascista, che puniva qualunque forma di aiuto al suicidio al pari della sua istigazione.
Il referendum e la quaestio: tecniche nonviolente perché normate dal diritto, che permettono così a una forza politica di minoranza (ma non d’élite) di esprimere un’inedita vocazione maggioritaria. È uno degli insegnamenti pannelliani più importanti, perché predicato e praticato. Ora come allora: vale per l’accertata incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, inseguita e ottenuta da Nessuno Tocchi Caino; vale per le imminenti campagne referendarie dell’Associazione Coscioni sulla depenalizzazione dell’eutanasia di soggetti “non vulnerabili”, e del Partito Radicale sui temi della giustizia.
Ci sarà pure l’altra faccia della luna, nella prassi politica radicale? Per molti è nel suo tratto più discusso e discutibile, l’antipolitica, di cui Pannella sarebbe stato il precursore. La parola allora all’accusa, che sgrana il lungo rosario d’imputazioni a suo carico: la candidatura nelle liste radicali della pornostar Ilona Staller, eletta deputata nella X Legislatura, remake del pitale dannunziano lanciato da un biplano sul Parlamento. La “lista Pannella”, prima formazione politica a recare nella denominazione e nel simbolo il nome del suo leader, aurorale deriva dei tanti sciagurati partiti personali che verranno. Le campagne elettorali a favore dell’astensione, scaltro escamotage per acquisire consenso a buon mercato. L’abuso dello strumento referendario, in aperta contestazione alla delega parlamentare. I tratti predicatori presenti nella sua comunicazione politica, fino alla retorica populista contro la partitocrazia.
Le accuse antisistema mosse a organi costituzionali (su tutte, la Corte costituzionale quale giudice referendario, «suprema cupola della mafiosità partitocratica»). L’abuso dei regolamenti parlamentari in chiave ostruzionistica contro la maggioranza politica, sabotata nel suo potere di decisione. Le disinvolte alleanze – di destra, di sinistra, di centro – viste come pratiche di trasformismo. Uno smisurato narcisismo, riassumibile nella frase attribuita a Pannella – ma in realtà di Franco Roccella – «Chi non è con me è contro di sé». La parola alla difesa. Totus politicus, Pannella non è mai stato un extraparlamentare, avendo una concezione quasi sacrale della politica e delle istituzioni. Il suo agire trasformando seguiva una propria coerente incoerenza in fatto di alleanze perché, per lui, contava solo la battaglia di scopo, non con chi la fai. La sua identità politica, infatti, non si è mai definita per opposizione a qualcuno, dunque poteva dialogare con tutti senza mai smarrirsi: stava dov’era meglio stare per far avanzare le proprie idee, contaminando gli altri senza mai corrompersi. Ecco perché vedere nel leader radicale un Beppe Grillo antemarcia è un abbaglio cognitivo, prima ancora che un incommensurabile e offensivo paragone.
Oggi è il tempo dei politici a contratto, dei presidenti del Consiglio selezionati in base al curriculum, taroccato se necessario. Ecco quello di Pannella: deputato per quattro legislature (1976, 1979, 1983, 1987) ed europarlamentare per sei. Consigliere comunale a Trieste, Catania, Napoli, Teramo, L’Aquila, Roma, e consigliere regionale nel Lazio e in Abruzzo. Tra giugno e settembre 1992, per cento giorni, Presidente del Municipio di Ostia sciolto mesi prima per corruzione e infiltrazioni mafiose, dove lascia un segno (dalle ruspe dell’esercito chiamato ad abbattere le case abusive, al sorteggio anti-Cencelli delle commissioni): è stata, questa, la sua unica esperienza di amministratore. Negli ultimi vent’anni di vita non ricoprì più alcuna carica parlamentare, né fu nominato senatore a vita, pur avendone certamente i requisiti indicati dall’art. 59 Cost. Mai è stato chiamato a rivestire la carica di Ministro, neppure della Giustizia o degli Affari Esteri, o di Commissario europeo, per indicare tre sue evidenti vocazioni e dichiarate ambizioni. Eppure ha saputo realizzare più cose lui di più governi messi insieme.
Un vero e proprio sperpero per il Paese, se confrontato alle improbabili biografie di tanti soggetti investiti di potere in questi anni, buoni a nulla capaci di tutto. Sappiamo però quale sarebbe stato il primo atto di un Pannella eletto al Quirinale: «Dimettermi, perché se il Paese mi eleggesse democraticamente vorrebbe dire che non ha più bisogno di me». A pensarci bene, è la situazione esattamente capovolta dell’ex Primo ministro del governo Di Maio-Salvini, elevato per caso alla presidenza del Consiglio proprio perché non c’era bisogno di lui. Resta da dire dell’eredità politica lasciata da Marco Pannella. Per farlo, serve citare l’antipatizzante Giovanni Negri, già segretario del Partito Radicale dal 1984 al 1988: «Conosci l’Okavango? È il fiume più bello del mondo. Ma non sfocia nel mare, finisce nel deserto. Pannella è l’Okavango della politica».
È il rimprovero che molti gli fanno: non aver mai voluto incanalare la sua energia politica in una cornice di partito istituzionalizzato, lasciando così il Paese orfano di una significativa forza parlamentare, capace di rappresentare stabilmente un’area laico-democratica-riformatrice. È il limite di fondo dell’esperienza pannelliana anche secondo molti politologi (Angelo Panebianco, Massimo Teodori e Piero Ignazi, ad esempio), in tempi ormai remoti vicini ai radicali. La sua morte ha segnato anche la fine della storia radicale per come l’avevamo fin qui conosciuta. È il destino di qualsiasi comunità politica lasciata dal suo leader carismatico senza eredi, perché come lui nessuno più. Pannella, in fondo, al dopo non ci ha mai pensato, temendo gli apparati e la loro sclerosi. Ad essi ha sempre preferito una piccola, ma agguerrita comunità di compagni pronti a ricominciare ogni volta di nuovo, e ha sempre privilegiato la diaspora all’interno degli altri partiti di chi alla scuola radicale si era formato.
Più e meglio della galassia radicale (implosa con inusitato e rancoroso livore, allo spegnersi del suo sole), è stata Radio Radicale a conservare indivisa l’eredità lasciata da Pannella: se ne rintracciano i segni nel palinsesto, nell’incredibile archivio audiovisivo, nelle battaglie di scopo di cui si fa emittente, nella pluralità di voci che non ne corrode la forte identità, testimoniata da quarantacinque anni di vita vissuta (e non sopravvissuta), ininterrottamente, nonostante tutto e tutti. E, come diceva Pannella citando Bergson, «La durata è la forma delle cose». La voce del silenzio che seguirebbe alla sua chiusura, ciclicamente minacciata dalla maggioranza di turno, non sarebbe solo interruzione di pubblico servizio (che è un illecito penale e non una scelta che «sta nella libertà del Governo fare», come ebbe a dire Vito Crimi, indimenticato gerarca minore del governo felpa-stellato). Sarebbe come zittire Pannella, silenziandone la voce. Nessuno ci è mai riuscito in vita, perché «Pannella sedato era una contraddizione in termini. Infatti non è durato nemmeno un giorno», come scrisse alla sua morte un altro radicale libero, Massimo Bordin.
Marco Pannella era un galantuomo, spesso ispirato dal sole, che scaricava le sue pistole in aria e regalava le sue parole ai sordi. Per molti una spina di pesce, di quelle che ti vanno di traverso e di cui non ti puoi liberare. Era il Signor Hood della politica italiana, come lo ha cantato Francesco De Gregori nell’omonima canzone a Pannella dedicata («a M., con autonomia»). A chi – come me – ha ricevuto il grande dono di aver goduto della sua stima esigente e del suo affetto generoso e disinteressato, resta ancora oggi un di più di tristezza e di vuoto per la sua assenza. Da riempire, per quanto si è capaci, calpestando sempre nuove aiuole.